L., 33 anni, rumena zingara. Sta scontando cinque anni e sei mesi.
Lavora con Made in Carcere da 1 anno ed è un fulmine nel confezionamento delle borse. Il suo accessorio preferito è il Braccialetto.
“Ho quattro figli che abitano in Romania, da quando sono stata arrestata loro chiedono l’elemosina per potermi mantenere in carcere.
Lavorare in prigione non è facile. Un mese fa, finalmente, mi hanno accettata in sartoria e potrò mandare io dei soldi i miei bambini. Quando mi hanno detto che la mia domanda era stata accolta ho cominciato a tremare tutta, ho pensato che fosse successo un miracolo.
Non sapevo cucire, non avevo alcuna esperienza e desideravo con tutto il cuore potere guadagnare qualcosa da mandare ai miei bambini e a mio marito che è handicappato. Il mio primo incarico è stato fare pulizia nel laboratorio. Poi, a poco a poco, ho imparato a tagliare, impacchettare e fare altre operazioni semplici. Adesso ogni giorno non vedo l’ora di andare a lavorare e imparare un po’ di più.
Per me si tratta di una opportunità straordinaria. E per quanto in prigione si soffra molto, questa è una gioia immensa.
Mi sto formando per un mestiere che mi servirà anche fuori di prigione e sto imparando a lavorare in gruppo, condividere responsabilità, rispettare scadenze.Tutte cose nuove per me.
In laboratorio non impariamo solo a cucire, sviluppiamo tante altre capacità. Per esempio ci confrontiamo per trovare delle soluzione ai piccoli problemi di produzione. E quando una di noi ha bisogno di un po’ di conforto, sappiamo trovare il modo di darlo.
È un’esperienza umana molto intensa che ci fa crescere insieme giorno per giorno. Personalmente, non so che cosa sarebbe successo se non avessi avuto questa possibilità.
All’inizio della mia reclusione piangevo sempre e avevo anche chiesto la terapia, poi ho capito che mi avrebbe distrutta e allora ho smesso. Il lavoro mi da una forza e un entusiasmo incredibile, sono molto cambiata e quando avrò scontato la mia pena vorrei continuare a lavorare con Luciana.”
“Sono stata tossicodipendente per dieci anni, la prigione è stata la mia fortuna. Forse avrei fatto una brutta fine.
L’altra mia grande fortuna è stata potere lavorare in sartoria. Non è facile entrare. Mi hanno accettata oltre tre anni dopo la mia prima richiesta.
Le detenute sono tante, i posti a disposizione pochi ed è un privilegio molto ambito. È comprensibile, quando ci si siede alla macchina da cucire è un po’ come evadere perché quasi non ci si rende più conto di essere in carcere.
Io sto pagando la mia pena facendo un lavoro normale e di sera mi sento stanca e soddisfatta di quello che ho fatto. E non si tratta solo di avere cucito delle borse. Sono incarcerata da tanto tempo e riesco a capire i problemi che vedo nelle nuove detenute.
Un momento di debolezza, uno scatto di impulsività… ci sono passata e so che cosa hanno bisogno di sentirsi dire.
A volte mi stupisco di come sono diventata paziente e disponibile. Il laboratorio mi ha aiutata molto a maturare, qua ognuna deve essere responsabile del proprio operato e anche di quello delle compagne.Se una lavora male pregiudica il risultato collettivo, allora le altre le insegnano quello che non sa fare oppure cercano di tirarle su il morale. E lo spirito di gruppo cresce.
Fuori dal laboratorio non è la stessa cosa.
Rimanendo rinchiuse 22 ore al giorno in cella ci si incattivisce. Se tutte le detenute avessero l’opportunità che abbiamo noi, il carcere sarebbe veramente un posto di rieducazione. Abbiamo sbagliato, possiamo cambiare e migliorarci.
Nella vita tutti fanno degli errori, l’importante è che almeno servano ad imparare. Io sono stata la pecora nera della famiglia, adesso sto provando a recuperare il rapporto con mio padre e a fare ammenda con tutte le persone che ho fatto soffrire.”
Intervista a cura di Enzo Del Verme