MADE IN CARCERE, UN MARCHIO SOCIALE PER “RICUCIRE” LA VITA DELLE DETENUTE PENITENZIARI DI LECCE E TRANI OSPITANO UN LABORATORIO SARTORIALE, CHE NON È SOLO ATTIVITÀ DI REINSERIMENTO PER LE DONNE, MA ANCHE UN PROGETTO DI SUCCESSO E DI RISCATTO
Uscire dall’invisibilità, ritagliandosi un futuro fuori dal perimetro del carcere. Parte da qui, da un laboratorio divenuto presto una Maison sartoriale all’interno degli istituti penitenziari di Lecce e Trani, la scommessa di dare una seconda opportunità alle donne detenute. Una sfida nata nel 2007 che è diventata subito un marchio, Made in Carcere. «Questo brand sociale è nato quando ho avviato l’attività – racconta Luciana Delle Donne, ideatrice e CEO di Made in Carcere – Ho chiesto alle detenute di quel tempo se preferivano chiamarlo ‘Cattive ragazze’ o ‘Made in Carcere’. Loro dissero che volevano che si sapesse che i prodotti erano realizzati in carcere perché, anche se avevano commesso un reato e stavano pagando, volevano dimostrare di sapere fare bene le cose. E così, loro stesse hanno deciso di chiamarlo Made in Carcere».
Sono 2.402 le donne detenute negli istituti penitenziari italiani, il 4,12% della popolazione carceraria (Fonte: Ministero della Giustizia, 2018). Una piccola parte di una comunità da sempre tenuta ai margini, e spesso volutamente dimenticata dietro le sbarre. Persone per le quali è prevista una rieducazione, che prevede il lavoro come strumento per un futuro reinserimento in società. Sull’efficacia della rieducazione tramite il lavoro, gli ultimi dati registrati nel 2007 affermano che “il tasso di recidiva dei detenuti è pari al 68%, contro il 19% di chi ha scontato la pena ai servizi sociali”, come riportato nel mini dossier OpenPolis 2016. Il lavoro quindi anche in carcere fa da traino alla dignità di chi è detenuto, e le donne detenute che confezionano borse e accessori Made in Carcere hanno imparato anche a fare parte di un team e a conoscere le dinamiche di un vero lavoro in azienda.
«E’ fondamentale attivare un percorso rieducativo, per ricostruire una dignità ma anche una competenza che non è soltanto la cucitura ma è anche il rispetto del lavoro, il rispetto dei metodi, dei ruoli, delle responsabilità. Quello che noi trasferiamo è lavoro vero. In questi modelli la cosa importante è che ci sia il ritmo di un’azienda che deve autofinanziare un progetto, altrimenti diventa un percorso di assistenzialismo dove qualcuno deve passare il tempo», spiega Luciana che con un’esperienza ultra ventennale nel mondo della Finanza ha scelto di dedicarsi al volontariato in questo suo progetto.
E racconta anche della sua seconda vita: «Sono un’ex dirigente di banca e ho creato il primo modello di banca online in Italia. Poi ho deciso di lasciare tutto e sono tornata a Lecce. Conoscendo la stanza dei bottoni, e le dinamiche del potere, è bello lasciarsi andare in questo contesto. La bellezza del progetto è che c’è tanta fatica, perché andiamo controcorrente. Oltre a lavorare all’interno del carcere, lavoriamo molto all’esterno per cercare di convincere le persone, attraverso l’eccellenza dei nostri prodotti, che generare benessere comune e fare qualcosa di bello per gli altri è gratificante. L’obiettivo più importante per noi è cambiare lo stile di vita delle persone comunicando eccellenza e bellezza».
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