Luciana Delle Donne, da manager rampante ad angelo delle detenute

Perché il carcere?

«Ho visto giovani disperati che nessuno teneva in considerazione. Persone invisibili che camminavano. Ho iniziato da loro, dagli studenti. Ma ho capito subito che lì l’intervento deve essere istituzionale, non puo partire con una logica da privato. Un giorno ho pensato alle donne in carcere, perché a Milano avevo visto dei capi creati da alcune detenute. Da lì è nata l’idea di produrre borse, sciarpe e quant’altro».

È stato facile iniziare?

«No, perché prima di me, nel carcere di Lecce, erano entrati i “professionisti della formazione” quelli che fanno un progetto, prendono i soldi e non tornano più. Io non volevo fare così. Ma loro avevano paura che lo facessi. Mi guardavano con diffidenza: ho spiegato che non ero una imprenditrice e che stavo facendo un esperimento. Ancora oggi dico loro: raddrizziamo insieme le cuciture storte della vostra vita».

Chi l’ha aiutata?

«All’inizio ho chiesto i tessuti a degli amici ed ho scoperto che erano contenti di liberare il magazzino dagli scarti e dalle rimanenze. Uno di loro, Luciano Barbetta, mi prestò anche alcune macchine, che poi comprai con i primi utili dell’azienda. Insomma, capii che si potevano usare le rimanenze di magazzino: facevo bingo sia dal punto di vista della tutela dell’ambiente che dell’inclusione sociale».

Oggi Made in Carcere ha 16 dipendenti detenute che lavorano 6 ore al giorno e percepiscono 500-600 euro. Tranne lei che non prende un euro, perché?

«Non posso, andremmo in perdita. Ho guadagnato molto in passato. Ma ora i soldi stanno per finire, devo ricominicare a guadagnare qualcosa anch’io» (sorride).

Lei è folle.

«Sono strana, lo so. Ho fatto una scelta di vita. Volevo provare la povertà, stare tra la gente in un certo modo. Quando lasciai la banca mi dissi: voglio pagare per lavorare!».

Cosa cercava Luciana Delle Donne?

«Volevo dimostrare che fare del bene fa bene: se lavoriamo per un benessere comune è molto più facile essere felici».